Corpi nudi leggibili in maniera ambivalente, dicotomica, fra bellezza e fragilità.
Corpi a cui Pizzardi, pittore che conosce il mestiere, ritorna consapevolmente negli anni fra il 2001 e il 2015, dopo un radicale abbandono richiesto dal mercato, dal gusto, dall’Accademia, dalla Milano antipassatista degli anni ‘80, dal motore che macinava novità prima che, alle soglie del XXI secolo ci si fermasse un attimo a guardarsi, ci si perdesse nell’eclettismo postmediale privo, finalmente, di dogmi.
Un recupero faticoso e affascinante di proporzioni e di armonia, una pulizia interiore prima che di pennello con la quale l’artista passeggia agevolmente nelle regioni di un antropocentrismo che, alle nostre latitudini, ha perfino modellato un Dio che si incarna – sublime paradosso di un particolare monoteismo - potenza culturale di un intero ecumene plasmato dall’Ellade intorno all’idea e al suo fenomeno carnale di άνθρωπος.
Un recupero, anche, ancestrale in cui pariteticamente si fronteggiano corpi maschili e femminili che richiamano il mito ritornando all’origine, segnando l’inizio del pluriennale percorso oggetto di questa mostra. Le prime tele che, per comodità di formato, sono state allestite nel secondo ambiente della galleria, mostrano colori accesi e quasi acidi che ricalcano lessemi classici organizzati in una sintassi anticlassica, come fredde fiammate ci turbano e al contempo ci allontanano dalla riflessione in quanto rendono i nostri sensi partecipi sollecitandoli più del pensiero (ecco la vampata giallo/rosa che costruisce la figura di Elena, o l’azzurro polvere opacizzato dal tempo come un encausto pompeiano su cui è ritagliata la figura di Antinoo). Man mano che ci si avvicina a periodi più recenti i corpi mostrano l’ingannevole territorio della bellezza caduca, della sua vulnerabilità ma anche dell’offesa corporale, del peccato, del sacrificio. Sono composizioni calcolatissime, superbe finzioni sceniche tratte da fotografie con costanti riferimenti alla grande pittura figurativa del passato in cui la luce gioca lo stesso ruolo salvifico di Caravaggio, di De Ribera, di Stomer, in cui le ombre si condensano in sudore e sgomento del materiale epidermico che Pizzardi crea come fosse un demiurgo; col piacere, con la responsabilità di una vera e propria creazione. Corpi amati, agognati, costruiti e accarezzati sulle tele pennellata dopo pennellata, velatura dopo velatura, manipolati amorevolmente ma che consapevolmente impauriscono l’artista per la loro fragilità, per il labile confine che separa ciò dalla manipolazione sadica altrettanto piacevole. Più volte nelle nostre discussioni Pizzardi richiamava l’esperimento della Abramovic, la consapevolezza terrifica di quel meccanismo per il quale il singolo abdica all’individualità che si liquefà osmoticamente in un gruppo unitario ed omogeneo, e che agisce delegando ad esso la responsabilità di un qualsiasi atto. Dinamiche complesse che sottendono studi psicologici e sociologici ma che, anche nell’arte, hanno mostrato fino a dove possa essere spostato il limite del godimento nell’esercizio del dominio su un corpo indifeso.
Mariateresa Zagone





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