LaChapelle, l'unico erede di Warhol che ancora viva e vegeti, ridonda di sagome barocche e tutto ciò che tocca diviene sfavillante. Lucido. Laccato/leccato come nei risvegli onirici dei seguaci del consumo. Cioè gli alieni pop, quarant'anni dopo. Il rigurgito del sessantotto è patinato, psichedelico/istituzionalizzato.
Tripudio di carne – warholianamente, «flesh» - in questo supermarket dello Star System, con tanto di reparto occasioni. Catastrofi e distruzioni come fossero vetrine dei Montinapoleoni. Sogno che evoca il surrealismo ma in chiave Paris Hilton. Per cui il «Diluvio» non è semplicemente metaforico/autoreferenziale, ma, irrealisticamente, diviene inno al consumarsi di consumo fino a rinascere, come prodotto di consumo. Cioè arte di chi se la può permettere. Le icone di un tempo. Che fino all'altro ieri erano Papi e GranMarchesi, oggi sono le Pamele e le Angioline, le veneri nere e le Madonne, i transessuali: ologrammi di un transfert collettivo senza precedenti. Ecco che la committenza, nella società del trans-spettacolo, è costituita dagli avatar (stile Second Life) dell'illusorio e vituperato universo nel quale competiamo (e committiamo).
Medita, LaChapelle. Medita sulla presenza del trascendentale nelle nostre virtuali esistenze. Impressiona corpi nel momento esatto in cui essi dialogano con l'infinito. Come Caravaggio. Che prese puttane e mariuoli per farne Marie e Giuseppi colmi di pietà. Così questo David sfida il Golia della convenzione. Lui mette Santi e Semidei nel postribolo dell'eternità. Sembra d'essere nella Pompei volgare e segreta dei fauni priapeschi e delle fanciulle violate, solo che questi siamo noi. Con le Sacre Sacerdotesse dell'Amore hollywoodiano che invadono lo stanco immaginario – perché ottenebrato dalle pippe mentali - della vecchia Europa.
Con l'immancabile effige di Beckham che ormai resta solo da metterla al posto dell'Union Jack e avrà davvero invaso il mondo.
Con l'orrore televisivo quotidiano che viene immortalato, morente, mentre si martorizza, mortificato, in un mostruoso mortaio martellato. Nel seno che il setting, alla fine, è talmente funzionale da aver generato una tendenza LaChapelle che è, oramai, universale. E che va dall'arredamento al design al lifestyle.
I soggetti ritratti, intanto, finiscono per venire travolti da un hamburger gigante perché noi siamo, è vero, ciò che mangiamo. Ma è vero anche che noi siamo tutto quello che non abbiamo ancora mangiato. Che ancora dovremo ingurgitare, prima di giungere al sublime.
Lui, LaChapelle, vi tende, al sublime. A partire dal marchio di fabbrica. Ossia dal suo ambiguo appellarsi: cognome di straripante e michelangiolesca fattura.
Eccola, allora, l'alluvione di LaChapelle. From «Heaven to Hell» e ritorno. Perché così è più art e meno advertsing. Oppure è il contrario. Certo che Courtney in versione «Pietà» con tanto di Cobain clonato è l'immagine simbolo di un'epoca. Già dimenticata perché la velocità resetta tutto ogni nanosecondo. Ma, non per questo, da dimenticare.
Accumulazione: lo stato dell'individuo che vive nel capitalismo avanzato mostra una sorta di nevrosi compulsiva da raccolta di oggetti, persone e pensieri da acquisire, costantemente e in maniera sempre più inarrestabile. Il ritratto di tale elettroencefalogramma piatto è spietato.
E' talmente surreale da diventare verista. Come una sorta di Pirandello all'acido lisergico, ma per famiglie.
Così LaChapelle parla pure di fuga dalla realtà. Attraverso miscugli di paradossi poetici. Il culto del fisico. Modelli come Sindoni. Genitali come sindromi. Il fascino dei Vips. Visti dentro patetici privè. Vittime di cliché . Sopra un bidet.
Fonte: www.ilsole24ore.com




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